Fabrizio de andrè antologia di spoon river

Visualizzazioni 908

Fabrizio De André è, ancora oggi, una voce fuori dal coro nel panorama del cantautorato italiano. Come Dalla, ha saputo far ridere, piangere, riflettere milioni di persone attraverso le sue parole, fondendo in un unicum poesia e chitarra. Perché prima ancora di essere un cantautore, Fabrizio era ed è un poeta.

Mi immagino il suo spirito, taciturno e intento a fumare l’ennesima sigaretta, aggirarsi tra gli amici di qualche compagnia che, per dare una svolta alla serata, hanno sfoderato una chitarra per mettersi a cantare il repertorio “da serata” che spazia da Gianna di Rino Gaetano a La canzone del sole di Battisti per arrivare a Il pescatore o La canzone di Marinella o Volta la carta, tutte canzoni cantate con un certo spirito frivolo ma che di frivolo hanno ben poco, ma che ben si prestano ad essere cantate a squarciagola in lieta compagnia. Perché poi questo, in un certo senso, era lo spirito di De André: scriveva canzoni per tutti ma allo stesso tempo per pochi, canzoni, apparentemente semplici ballate, che, una volta private della musica, risultano poesie che trasudano di un profondo senso di malinconia, disincanto, vuoto interiore, una specie di male di vivere montaliano.

Un giovane Fabrizio De André, tipico ragazzo annoiato di buona famiglia poco incline al dovere, di notte girava a far casino con i suoi amici per i carrugi di una Genova uggiosa e misteriosa.

Il suo peregrinare lo conduceva in luoghi che chiunque avrebbe fatto fatica a frequentare, angoli malfamati abitati solo da tanta miseria, umiltà e povertà. Eppure quel giovane ragazzo si sentiva quasi attratto da quel mondo, lo invidiava, ne bramava le istanze di libertà d’essere, quella libertà che non poteva avere ma che in fondo ricercò sempre per tutta la vita.

La critica spesso ha definito Fabrizio De André il poeta degli ultimi e degli emarginati, ma personalmente non mi sono mai trovata d’accordo. Sì, certamente i suoi testi parlano di ultimi, quegli stessi ultimi che osservava quando camminava per le strette strade di Genova, ma De André va più visto come il Manzoni della situazione, quell’acuto osservatore che prende le parti degli ultimi ma che allo stesso tempo biasima e critica aspramente: era ovviamente la sua condizione sociale a portarlo a questo tipo di analisi.

In De André risiedono più e più stili narrativi e musicali, dal folk alla chanson francese, dal blues allo spirito dei poeti maledetti: con la sua musica ha saputo suscitare, anche in me, con il suo spirito critico e sanzionatorio, una riflessione sul mondo che mi circonda, arrivando alla conclusione che i tempi cambiano ma l’ipocrisia, le ingiustizie, la discriminazione… restano, il tutto con una scrittura fatta di un equilibrio sempre in bilico tra oggettività a soggettività, e questo lo vedremo meglio più avanti.

Fabrizio De André

La storia che vado a raccontarvi comincia ben prima della vita di De André, esattamente nel 1916, in pieno conflitto mondiale.

Un ormai noto Edgar Lee Masters, scrittore americano, raduna in un unico libro, la nota Antologia di Spoon River, i componimenti che nel corso dei due anni precedenti il Mirror, giornale locale di Saint Louis, nel Missouri, gli aveva pubblicato.

L’Antologia di Spoon River, testo che ho amato e letto fino alla consumazione dei secoli, è un viaggio poetico idealizzato da Lee Masters all’interno del cimitero dell’immaginario paesino di Spoon River (il nome è un omaggio al fiume che scorre poco lontano da Lewiston, la città natale del poeta) attraverso gli epitaffi sulle tombe. È un testo, a mio parere, completo, perché Masters porta all’attenzione ogni singolo prototipo umano, rompendo lo stereotipo della lapide buonista che siamo soliti leggere, che sembra eliminare i vizi che ci hanno colto in vita: Masters invece mette in evidenza sicuramente i pregi del defunto, ma anche e soprattutto i difetti, in uno stile arguto e diretto, caratterizzato da una struttura netta e scarna.

Un libro che ha alle spalle riferimenti rilevanti, come gli epitaffi dell’Antologia Palatina. Sicuramente non è un testo famoso: in Italia è arrivato durante il ventennio fascista grazie alle traduzioni di Fernanda Pivano e Pavese, autore ormai affermato al tempo e amante della cultura americana al punto di diventare il primo di una lunga serie di esponenti dell’”americanismo” come Calvino successivamente, che lo sottopose all’attenzione della scrittrice: è nota la famosa dissertazione tra i due in merito alle differenze tra la letteratura americana e quella inglese. La prima traduzione del libro uscì presso l’editore Einaudi nel ’43, quando Fabrizio aveva soli tre anni.

Spoon River fu un testo che De André, in più momenti della sua vita, lesse e riprese.

Edgar Lee Masters (1869-1950), American poet.

Lo incontrò la prima volta da appena diciottenne. E come è normale che sia per una mente giovane, lo lesse con un certo spirito, riconoscendosi con alcuni dei personaggi descritti. La lettura di Master portò Fabrizio, nel corso del tempo, a diverse contaminazioni musica/letteratura. Qualche esempio? la famosissima Città Vecchia, considerato uno dei tanti manifesti musicali di Genova, è un adattamento dell’omonima poesia di Umberto Saba (poesia che Saba dedica alla sua città, Trieste); Il fannullone/Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitier (1967) o anche Geordie(1973) sono tratte, rispettivamente, da una ballata francese e da una ballata britannica convenzionalmente contenuta nell’antologia delle Child Ballads.

Nel ’71 De André, ormai trentenne e lontano dai furori giovanili (mai completamente assopiti), riprende Masters, complice anche un incontro con Fernanda Pivano in persona (chi meglio di lei che l’aveva tradotto poteva fornirgli i giusti consigli?), e del testo sceglie 8 epitaffi e l’introduzione di Spoon River, trasformandoli in quello che sarebbe diventato Non al denaro non all’amore né al cielo, il quinto album della sua produzione musicale. Sia chiaro: non si tratta di una trasposizione dell’originale in musica. Ne ha preso il succo, la storia, facendone delle storie di invidia e scienza.

Come lui stesso ha dichiarato nell’intervista alla Pivano ha dedicato una facciata del vinile al primo tema e l’altra al secondo; mettendo in evidenza i vizi degli uomini più che i pregi.

Sono 8 i personaggi di cui racconta “vita, morte e miracoli”, è proprio il caso di dire; e dormono, dormono sulla collina, ci racconta il primo verso de La collina, il brano di apertura dell’album, che è anche il primo testo che apre Spoon River e non è un epitaffio, bensì una sorta di elenco a mo’ di porta infernale alla Dante che racconta al visitatore, attraverso le domande poste da un uomo, di ritorno nel suo paesello, alla madre, cosa è successo alle tante anime che si trovano lì seppellite.

Nel romanzo di Lee Masters gli epitaffi riportano il nome del personaggio. Mentre De André ha cambiato anche questo aspetto, intitolando i brani con un lato caratteriale o con la professione del defunto.

Solo il brano Il suonatore Jones porta nel titolo sia il nome che la professione, il che è comprensibile: a lui De André dedica un posto di riguardo, ovvero la conclusione dell’album, in quanto musicista come lui. Perché prima parlavo di equilibrio tra oggettività e soggettività?

Se da una parte Fabrizio empatizza la condizione di personaggi emarginati, quali sono il suonatore Jones, il malato di cuore, il blasfemo e il matto, persone che ammira in quanto, seppur viziose perché invidiose di qualcosa o di una condizione che non possiedono, trovano lo strumento per superare quel senso di invidia, ad esempio la musica per quanto riguarda il suonatore Jones e l’amore per il malato di cuore (che poi sono i due personaggi per cui, evidentemente, De André ha una specie di velato debole), dall’altra pone un’attenzione particolare anche per gli uomini d’alto rango, specialisti di scienza e medicina, e liberi professionisti quali il medico, l’ottico, il chimico e il giudice, uomini che possiedono tutti lo strumento più potente che l’uomo possegga, ovvero l’intelligenza o la professione, ma la usano nel modo più improprio, col rischio di trasformarlo da strumento ad arma.

Ne è l’esempio Un giudice, un nano che avendo per anni subito derisioni, soprusi e domande impertinenti, studia per diventare procuratore più col fine di vendetta che per rivalsa sociale, finendo con l’abbassare ancor di più, oltre che la sua statura fisica, anche la sua statura morale. Ecco la parte finale della canzone e dell’epitaffio, che racconta proprio di questa vendetta.

Questa è la versione di Lee Masters

[…] E poi immaginadi essere diventato Giudice di Contea.
E che Jefferson Howard e Kinsey Keene,
che ti avevano schernito, fossero obbligati a stare in piedi
davanti al banco e a dire”Vostro Onore”
Beh, non pensi che sarebbe naturale
che io rendessi loro la vita difficile?
Questa invece è Un giudice.

E allora la mia statura
non dispensò più buonumore
a chi alla sbarra in piedi
mi diceva Vostro Onore,
e di affidarli al boia
fu un piacere del tutto mio,
prima di genuflettermi
nell’ora dell’addio
non conoscendo affatto/ la statura di Dio.

Mi sembrava un buon esempio da riportare per comprendere cosa intendessi quando parlavo di una non trasposizione fedele, bensì una rielaborazione. Come Master De André, in sostanza, ha voluto raccontare di tutte le classi sociali e di come la morte sia, per dirla alla Totò, ‘na livella, l’unico sonno eterno in grado di liberare l’anima da ogni tormento della vita, che sia per una vita di miseria e stenti o per una disdicevole condotta di vita. In conclusione si tratta, come detto in precedenza, di un ottimo esempio di contaminazione musico-letteraria. Un album dalle sonorità cupe e spettrali, dalle atmosfere gotiche degne della migliore letteratura romantica di pieno ‘800. Di tutte le canzoni di questo album vi consiglierei di ascoltare Un ottico, un brano particolarissimo soprattutto per la presenza, nel mezzo, di una parte completamente cantata in controcanto sullo stile di Battisti.

Articoli Correlati:

  • Rosso Relativo: le canzoni che (secondo noi) cambiarono la vita a Tiziano Ferro
  • Giulio Cesare: Antonello Venditti racconta gli anni del Liceo
  • Articolo 31: le canzoni di cui nessuno parla mai
  • Edoardo Bennato: Il rock di Capitan Uncino
  • 4 marzo 1943 – Piacere, Lucio

Sono Marta, universitaria sull’orlo di una crisi di nervi e sarcastica Mafalda gentile. Tra notti insonni passate sui libri a studiare e mix di caffè e camomilla, mi piace scrivere poesie e leggere del mondo che mi circonda, che sia quello di oggi o di quello vissuto dai nostri predecessori, alla ricerca dei colori di cui è fatto e delle sue colonne sonore.

Cosa si intende per Spoon River?

Ogni poesia racconta, in forma di epitaffio, la vita dei residenti dell'immaginario paesino di Spoon River (il cui nome deriva da quello di un omonimo fiume realmente esistente, che scorre vicino a Lewistown, città di residenza di Masters), sepolti nel cimitero locale.

Chi ha scritto l'Antologia di Spoon River?

Edgar Lee MastersAntologia di Spoon River / Autorenull

Quante sono le poesie di Spoon River?

L'Antologia di Spoon River è una raccolta di 244 poesie in verso libero. E, mi direte voi, fin qui nulla di eccezionale. Di eccezionale c'è invece che ogni poesia racconta, in forma di epitaffio, la vita dei residenti della cittadina immaginaria di Spoon River, ormai ospiti del cimitero locale. 47, morto che parla.

Toplist

L'ultimo post

Tag